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#VolontariatoInternazionale: Tre mesi ad Amupakin



29/11. Tre mesi sono passati, tre mesi pieni di nuove immagini, sapori, odori ed abitudini. Spesso mi è risonata in mente una frase scritta da M. Pollen che, analizzando il periodo in cui sperimentò la sua reazione nello smettere di bere caffè, in un primo tempo si descrive "come la mina di una matita non temperata"

Anch'io da quando sono arrivata, e ancora un po' ora, mi sono sentita come una matita non temperata a modo; corpo e mente si abituano alle dinamiche esterne con un ritmo molto complesso, ed è una novità molto differente da accettare se si è abituati ad una dinamica legata alla performatività e alla velocità. Qui tutto va lento, ma non in modo negativo, semplicemente ha una temporalità differente. Ed é un "lento" che si lega in realtà in modo molto più sano ad un ritmo circadiano e naturale.


In questi tre mesi sono stata l'unica espatriata a vivere ad Amupakin con le Mamas, quindi ho avuto il privilegio di averle tutte per me, ed è stata l'occasione per riuscire a costruire un rapporto che mi rendo conto essere molto speciale. Lo capisci dal saluto. Le persone della comunità Kichwa non amano il contatto fisico, soprattutto se si tratta di esterni alla famiglia, soprattutto se si è l'ennesima gringa. Ci si saluta tendendosi le mani, senza neanche stringersele, semplicemente facendo contatto con il palmo. Dopo tre mesi sono arrivata ad ottenere una stretta forte di mano ed il bacio sulla guancia da ognuna di loro che entra nella stanza. Sembra una cosa da sottovalutare ma in realtà è un’estrema espressione di fiducia e accoglienza all'interno di questa famiglia non sanguinea. Nel raccontarlo a due amici giovani Kichwa, sono rimasti molto sorpresi. Quindi forse la mia matita si sta lentamente riappropriando della sua forma appuntita. 


Vivere ogni giorno con loro risulta anche in una commistione di storie e racconti privati delle loro vite molto intensi e spesso molto pesanti, i loro racconti sono spesso pieni di sofferenza e rispecchiano vite dure che hanno scalfito personalità altrettanto forti. Vivere in realtà rurali non è semplice, soprattutto se si tratta di vivere quasi solo dei frutti del tuo terreno. Ho sentito spesso dire da qualche espatriato che qui la gente è ricca perché possiede la terra, e quando parliamo di terra effettivamente parliamo di appezzamenti di Chakra che vanno dai 5 ai 30 ettari, quindi non proprio dei giardinetti da casa a schiera. Terra significa ricchezza, ma lavorarci dentro significa spaccarti la schiena, bruciarti la pelle e ridurre le tue mani a conglomerate di calli a forza di battere con il machete. Questo per vendere i tuoi prodotti al mercato a dei prezzi irrisori, e se sei kichwa spesso ti ritrovi a dover combattere su un altro livello di complessità che è quello del razzismo. Se sei kichwa spesso ti ritrovi a contrattare al ribasso per poter vendere un casco di platano, dopo che hai lavorato tutto il giorno nella tua chakra che si trova a due ore di bus ed una di canoa dal centro abitato più vicino. Terra è ricchezza, ma se non si ha l'accesso per poter valorizzare i propri prodotti terra significa solo eredità di un tempo più semplice. E quindi si comprende il perché della massima migrazione giovanile che scappa dalle zone rurali spronati spesso dai propri genitori, quelli che se lo possono permettere, per cercare di ottenere un futuro differente. È importante però sottolineare che i giovani dell'Amazzonia non scappano, non sono deboli; sono forti e si fanno in quattro per cercare di cambiare le cose, per mantenere vive le tradizioni amazzoniche e Kichwa. Ma questo è complesso, e davvero difficile, se si è costantemente schiacciati da dinamiche sociali, economiche e governative che non aiutano a fare un passo dopo l'altro. C’è tanto amore per questa terra ma poca libertà nel poterlo praticare.


 

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