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#vocidalcampo: Chicha sì, Coca-Cola no!

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Esistono bevande che, per determinate culture in varie parti del mondo, rappresentano molto di più di quello che effettivamente sono.

Pensiamo al valore culturale del vino in Italia o del tè in Cina ma non solo, svariati popoli in ogni parte del mondo hanno sviluppato tutta una serie di bevande che hanno assunto col tempo un significato identitario.

Caratteristiche principali di queste bevande sono l’essere legate intimamente al territorio, a base quindi di prodotti disponibili localmente in abbondanza e la forma di preparazione tradizionale, a livello familiare o comunitario. Tutto questo per rispondere alle esigenze basiche di idratazione, nutrizione, coesione sociale e identità culturale.

Questa rubrica intende analizzare vari aspetti di una delle realtà in cui Nina opera, direttamente “dal campo” e quindi eccoci di nuovo nella regione amazzonica del Napo per vedere che cosa bevono gli indigeni amazzonici nella vita di tutti i giorni.

La risposta è: Chicha! Questo è un termine piuttosto comune in America Latina e si usa per definire un gran numero di bevande diffuse in molti paesi. L’elemento comune è il fatto di essere bevande ottenute dalla fermentazione e si possono ottenere da svariati ingredienti. Nella zona andina quello più comune è il mais mentre nella regione amazzonica la manioca, o yuca, la fa da padrone, oltre che come alimento base, anche nella preparazione della chicha.

Il procedimento è piuttosto semplice, anche se, come spesso accade nel caso di preparazioni casalinghe, esistono innumerevoli varianti. Le radici di yuca vengono sbucciate, fatte bollire e poi pestate in un grande recipiente di legno. Si ottiene così una sorta di impasto ed è qui che entra in gioco l’aspetto che tanto fa storcere il naso agli occidentali quando viene spiegato loro il procedimento. Sì perché per innescare la fermentazione l’amido della yuca deve essere prima convertito in zuccheri semplici e quale miglior maniera per farlo se non sfruttando l’enzima amilasi naturalmente presente nella nostra saliva.

Così infatti a questo punto della preparazione una piccola parte dell’impasto viene masticata e rimescolata accuratamente con il resto. Fatto questo l’impasto viene messo a riposare in grandi pentole di terracotta, coperto con foglie di banano. Dopo circa 24 ore di fermentazione la chicha è pronta e non resta che diluire l’impasto con acqua e servire in grandi ciotole ricavate dal guscio duro di un frutto locale chiamato kuya. Salute!

Se non vi entusiasma l’idea di provare questa bevanda dovete sapere che la chicha è un alimento dalle grandi proprietà nutrizionali, digestive e antiossidanti. È un probiotico naturale cioè contiene microrganismi vivi che aumentano la flora intestinale e aiutano il sistema immunitario del nostro corpo, oltre che facilitare l’assimilazione di determinate vitamine e minerali.

Al contrario di quello che si pensa normalmente la chicha è sì ottenuta attraverso la fermentazione alcolica, ma di alcool normalmente ne contiene molto poco. La quantità di alcool dipende soprattutto dal numero di giorni di fermentazione e la chicha che si beve quotidianamente non è molto fermentata e contiene circa solo l’1% di alcool, rendendola adatta anche ai più giovani. La versione più comune è quella a base di yuca ma può essere preparata anche con altri ingredienti, come per esempio i frutti della palma di chonta quando è l’epoca della sua maturazione. Per feste e altre occasioni speciali si preparano invece bevande molto più forti, alcune paragonabili al nostro vino, nella cui preparazione entrano anche banane mature o succo di canna da zucchero e con tempi di fermentazione più lunghi.

A livello sociale la chicha è strettamente legata alla figura femminile. Le donne infatti sono incaricate, oltre che della coltivazione della yuca, anche di preparare e servire la chicha. Tradizionalmente, la chicha non deve mai mancare in una casa Kichwa e la prima cosa che viene offerta agli ospiti in visita è proprio una grande ciotola di questa bevanda. Come mi raccontavano alcuni anziani, bisogna offrire la chicha anche se venisse in visita il proprio peggior nemico. Proprio per questo è grande maleducazione rifiutare la chicha offerta.

Al giorno d’oggi però sono sempre più le famiglie che contravvengono a questa “regola” tradizionale e nelle case indigene sempre più spesso si bevono succhi zuccherati o peggio bevande gassate dal gusto e colore improbabili che nulla hanno di nutritivo né tantomeno di identità culturale.

Parafrasando il gesto di Cristiano Ronaldo che tanto sta facendo discutere in questi giorni, sarebbe bello che anche nelle comunità indigene si mettessero da parte le bottiglie colorate dicendo: Chicha sì, Coca-Cola no!


Giacomo Rubini per NINA APS


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